L’energia nucleare non ha messo mai al centro sicurezza e gestione delle scorie. E mentre le rinnovabili la battono 10 a 1 sui costi di produzione, la Francia pensa di prolungare la vita di 32 reattori

di Gianni Mattioli e Massimo Scalia*
fisici e leader antinuclearisti

Dal mensile – La Iea, l’agenzia dei Paesi Ocse, continua a pubblicare nei suoi rapporti le “torte” delle fonti primarie d’energia con la “fetta” nucleare al 4,9% su scala mondo (2018). È un trucco perché guardando agli impieghi finali, e col nucleare si può solo produrre energia elettrica, scende al 2%, subissato dall’idroelettrico: 4.325 TWh contro 2.710. Quanto ai costi più recenti, per il reattore di Hinkley Point (Uk) l’accordo con l’ente elettrico francese, Edf, parla di 113 euro/MWh per 35 anni, mentre in Portogallo una gara per impianti fotovoltaici è stata vinta con 11,1 euro/MWh. Solare batte nucleare 10 a 1!

La procedura per prolungare oltre i quarant’anni l’esercizio di 32 reattori da 900 MWe, di cui 16 entro i 200 km dal confine italiano, che la Francia ha avviato senza rispettare convenzioni internazionali e norme Ue, ha acceso le luci su una ribalta “terminale”. Se il XX secolo è stato il “secolo breve”, l’energia nucleare è un corposo esempio di quella brevità. Nata dalla fretta di trasferire tecnologia dalla sfera militare a quella civile, anche per ripianare le spese affrontate dalle potenze per dotarsi della bomba atomica, la sua progettazione non poteva avere al centro l’attenzione alla sicurezza e alla gestione delle scorie. Ben altri tempi, e ideazione, sarebbero stati necessari rispetto ai pochi anni che separarono il primo test atomico (Alamogordo, 16 luglio 1945) dagli “Atoms for peace”, che il presidente statunitense Eisenhower lanciò nel ’53 per sostituire l’immagine rassicurante dell’energia elettrica a quelle tremende dei funghi di Hiroshima e Nagasaki. Le dilazioni nei tempi di costruzione e il levitare dei costi – una costante nella storia del nucleare civile – portò la rivista Forbes a dichiarare il nucleare come “il più grande fallimento della storia industriale degli Usa”. A ciò era bastato l’incidente di Three Miles Island (28 marzo 1979). Poco dopo la pubblicazione di Forbes arriva la catastrofe di Chernobyl (26 aprile 1986), che costringe la Iaea a rivedere la scala dei rischi, introducendo la differenza fra “catastrofe locale” e “globale”. Se questa distinzione fosse stata dichiarata subito, il nucleare avrebbe avuto quella impennata che lo portò nel mondo da un singolo MTep nel 1960 ai 146 nel 1973?

L’incidente di Fukushima (11 marzo 2011) mostrò che anche in Giappone, celebre per le sue architetture antisismiche, si devono fare i conti con l’avidità della società di gestione, la Tepco in quel caso. I crolli non furono dovuti allo tsunami ma a un progetto i cui costi non avevano guardato al molo di difesa, solo 6 metri a fronte degli oltre 10 dello tsunami di un secolo prima. E alla sciatteria del layout interno, per cui i bidoni del combustibile per alimentare i gruppi autogeni furono travolti dall’ondata a raso: due metri più in alto e il raffreddamento del reattore sarebbe continuato dopo l’interruzione della rete elettrica, questa sì dovuta allo tsunami, impedendo l’esposizione e la degenerazione del nocciolo fino all’esplosione della bolla di idrogeno e al crollo dello “schermo biologico”, la protezione edilizia della centrale. A parte il 10-9 indicato dal rapporto Rasmussen (1975) come probabilità di un incidente catastrofico, cioè uno per un miliardo di reattori funzionanti per un anno, è anche il [10-6 – 10-5] di successivi rapporti di sicurezza a dover fare i conti con una inconvenient truth: l’esercizio di 50 anni di reattori nel mondo porta la frequenza di incidente catastrofico nell’intervallo [10-4 – 10-3], cioè un incidente per 6.000 reattori/anno. Insomma, per dirla più semplice, la frequenza di incidenti catastrofici è assai più alta rispetto alle stime di probabilità, anche di quelle più serie. La realtà si è incaricata di dire che un incidente catastrofico, la fuoriuscita di radioattività dallo “schermo biologico”, è 100 volte superiore alla più pessimistica delle stime di probabilità. E la generazione “III plus” che Areva, società francese di Stato, voleva accollare all’Italia con la complicità di Berlusconi e le pacche sulle spalle di Sarkozy? Di Flamanville (Francia) e Olkiluoto (Finlandia) non si sa più niente, dovevano entrare in funzione entro il 2012. Lo scorso anno i costi stimati erano di 12,4 miliardi di euro, il quadruplo rispetto a quelli iniziali. Solo in Cina sono entrati in esercizio due di quei reattori, a conferma che il nucleare si coniuga bene con una società autoritaria.

La morte del nucleare, scriveva il fisico Amory Lovins, è come quella di un dinosauro colpito sul dorso: impiega un millennio per arrivare alla coda. E qui in Italia si è solo arrivati, con estremo ritardo, alla pubblicazione della Cnapi…

Leggi anche
La lezione sprecata di Fukushima di Fabio Massi
Fukushima 10 anni dopo, ritorno a casa di Pio d’Emilia

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER

SOSTIENI IL MENSILE

 

Redazione