Intervista ad Alec Ross, uno dei massimi esperti americani di politiche per l’innovazione, con posizioni di primo piano nell’Amministrazione Obama
Dal mensile di gennaio – Sette donne, tutte sotto i 45 anni e tre delle quali afroamericane, a guidare la comunicazione della Casa Bianca: Jen Psaki, Karine Jean-Pierre, Kate Bedingfield, Pill Tobar, Elizabeth Alexander, Symone Sanders, Ashley Etienne. Ancora tre donne – Janet Yellen, già governatrice della Federal reserve, Avril Haines e Linda Thomas-Greenfield – scelte rispettivamente come ministra del Tesoro, capo della National intelligence che coordina le attività sulla sicurezza e ambasciatrice all’Onu. Un ispanico immigrato – Alejandro Mayorkas – al vertice della Homeland security, l’agenzia per la sicurezza abitativa. Basterebbero queste nomine annunciate dal presidente eletto Joe Biden per dire che negli Stati Uniti il voto del 3 novembre ha innescato un cambiamento profondissimo. Ma il terreno su cui davvero potrebbe cambiare tutto è quello delle politiche ambientali e climatiche. Due segnali, rumorosissimi, sono già arrivati: esattamente un anno dopo la decisione di Trump di abbandonare l’Accordo di Parigi sul clima, Biden ha dichiarato che il suo primo atto da presidente sarà quello di rientrare nel trattato, e intanto ha nominato “inviato speciale per il clima” John Kerry, che nel 2015 da segretario di Stato di Obama quell’accordo aveva contribuito a scrivere. Nel suo ruolo di plenipotenziario per le politiche di contrasto al riscaldamento globale, Kerry siederà nel National security council, organismo che assiste il presidente su politica estera e sicurezza nazionale.
Per Alec Ross – fra i massimi esperti americani di politiche per l’innovazione, un passato recente con posizioni di primo piano nell’amministrazione Obama – la svolta è provvidenziale. «John Kerry ha con Biden un rapporto personale stretto e consolidato, e il fatto che con il suo ruolo farà parte a pieno titolo del vertice di governo significa che il tema clima sarà prioritario nell’azione della nuova presidenza. Inoltre Kerry, come ex segretario di Stato, potrà dare un contributo importante alla diplomazia multilaterale sul clima: nessun altro negli Stati Uniti ha più titoli di lui per questo lavoro».
Durante la campagna elettorale si è però parlato poco di clima.
È vero, la questione climatica non è stata centrale perché oscurata dalla pandemia e dall’economia, ma segna una delle grandi linee di frattura nell’opinione pubblica americana. La divisione più evidente è fra sinistra e destra politica, cioè fra chi riconosce il cambiamento climatico e chi tende a negarlo. C’è poi un’ulteriore divisione, che segue un criterio generazionale. Per chi ha più di 40 anni il clima non è quasi mai la priorità, viene dopo altre preoccupazioni. Invece più l’americano è giovane, più considera questo un tema importante. Per i ventenni è il problema numero uno. Va infine sottolineata ancora un’altra differenza, che attraversa lo stesso fronte di chi pensa che il riscaldamento globale sia una minaccia seria: i moderati guardano di più al mercato, magari a una carbon tax, per affrontare il pericolo, mentre dalla sinistra viene la spinta a lanciare un Green new deal che sia tale non solo nel nome ma in quanto sostenuto da un fortissimo impegno finanziario pubblico, stimato in 500 miliardi di dollari o più. Se le elezioni avessero registrato una grande “onda democratica” anche nel voto per Camera e Senato questa idea avrebbe potuto affermarsi, ma non è successo: il Congresso è in bilico e con i repubblicani molto legati agli interessi delle energie fossili un programma così sarà pressoché impossibile da attuare.
Un’America lacerata, e non soltanto sulla crisi climatica. È così?
Gli Stati Uniti oggi sono divisi come non accadeva dalla guerra civile di oltre 150 anni fa. Ci sono due Americhe in questo momento, ognuna con più di 70 milioni di elettori. Questa frattura rischia di mettere in pericolo l’unità della nazione, anche a breve termine: mi si spezza il cuore a dirlo, ma è vero. Le radici di queste differenze sono profonde, attraversano questioni che vanno dall’economia alla cultura, ai media. Bisogna riconoscere che purtroppo il trumpismo non è morto il 3 novembre. Ha avuto il consenso di 70 milioni di elettori, spinge anche repubblicani moderati e istruiti a parlare e a comportarsi come Trump. È disgustoso. Certo, ci sono punti di contatto fra questa destra radicale e altre forze sovraniste in giro per il mondo, ma credo che il caso americano faccia storia a sé.
Tornando alla questione climatica, secondo lei gli Stati Uniti sono pronti per affrontare la sfida della decarbonizzazione?
Sul piano tecnologico gli Stati Uniti sono tuttora il principale motore mondiale dell’innovazione. La Cina è bravissima a produrre in modo più economico, meno brava a inventare soluzioni nuove. In Europa ci sono sicuramente brillanti scienziati del clima e imprenditori di successo nel campo delle tecnologie pulite, ma la capacità di commercializzare la ricerca di base e di portarla su larga scala rimane più forte in America. La sfida per Biden sarà quella di orientare questa spinta all’innovazione tecnologica verso l’energia pulita. Per agire prima che sia tardi serve che i mercati finanziari, i grandi fondi d’investimento diano molta più fiducia all’innovazione green. Malgrado non tutti gli ecologisti ne siano consapevoli, penso alla sciocca opposizione di alcuni verdi europei contro la tecnologia 5G, io vedo peraltro una stretta relazione fra economia verde ed economia digitale. Le faccio un esempio: recentemente ho visitato la Nuova Zelanda, lì sono stato in grandi allevamenti di bestiame dove grazie all’adozione di strumenti digitali hanno ridotto del 30% i consumi d’acqua. Le tecnologie digitali possono contribuire moltissimo a rendere più efficiente l’uso delle risorse naturali.
L’ultima domanda è su un argomento che non si può evitare: l’emergenza Covid. Secondo molti osservatori questa crisi sanitaria dimostra che l’uomo si è spinto troppo lontano nella manipolazione della natura e che questa ora si sta in qualche modo vendicando. Lei è d’accordo?
La storia delle pandemie abbraccia l’intero cammino dell’umanità. In questo non c’è niente di nuovo. Ciò che è nuovo è la globalizzazione, la scala globale che questi fenomeni possono assumere. Ma non penso affatto che l’attuale crisi sanitaria dimostri che l’uomo si è spinto troppo oltre nella manipolazione della natura. Il Covid è nato nei cosiddetti “mercati umidi” della Cina, in contesti quanto mai tradizionali e in qualche modo naturali. Il problema è che i pipistrelli, da cui proviene il virus, non sono fatti per stare nei mercati umidi o per essere maneggiati dagli esseri umani. Ma questo non ha nulla a che fare con la manipolazione della natura o con la tecnologia, piuttosto riguarda l’uomo e alcune sue antiche abitudini delle quali, anche per prevenire future pandemie, dovremmo liberarci.
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Roberto Della Seta