Ritardi nella bonifica e nella ricostruzione delle aree intorno alla centrale danneggiata dal terremoto e dal conseguente tsunami. Dieci anni dopo restano distorsioni e disuguaglianze tra i cittadini. Ma l’atomo è ancora la scelta energetica preferita di Tokyo
Dal mensile – Le Olimpiadi estive di Tokyo in programma dal 23 luglio all’8 agosto, già rinviate di un anno a causa della pandemia, rappresentano per il governo giapponese la vetrina ideale per dimostrare al mondo che il Paese si è lasciato alle spalle la catastrofe nucleare di dieci anni fa e che la vita nei territori segnati da quella tragedia sta tornando alla normalità. In realtà, anche se la maggior parte delle aree intorno alla centrale di Fukushima Daiichi danneggiata dal terremoto e dal conseguente tsunami sono state riaperte, molti dei circa 160mila residenti evacuati dopo quell’11 marzo 2011 – soprattutto famiglie con bambini – non vi hanno ancora fatto ritorno: per paura della presenza di radiazioni nocive, sicuramente, ma anche per la forte riduzione delle opportunità di lavoro e la scomparsa dei tessuti sociali di un tempo. Secondo la scrittrice giapponese di origini coreane Miri Yū, che nel corso degli anni ha intervistato centinaia di superstiti e che vive a pochi chilometri da Fukushima, i preparativi per le Olimpiadi hanno sottratto risorse e posti di lavoro ai progetti di ricostruzione delle zone disastrate, causando ritardi alla ripresa di quei territori. «Gli organizzatori – ha recentemente affermato l’intellettuale – avrebbero dovuto valutare i livelli di avanzamento della ricostruzione prima di decidere di ospitare i Giochi. Sia l’incidente nucleare che la pandemia hanno evidenziato distorsioni e diseguaglianze nella società giapponese. Molte persone guardano il momento attuale attraverso una lente di disperazione anziché di speranza». A confermare questo stato di inquietudine, i risultati di un sondaggio realizzato a gennaio dall’agenzia di stampa nipponica Jiji Press: solamente 6 sindaci, sui 42 delle municipalità del nordest del Giappone più colpite dagli eventi catastrofici del 2011, considerano completati i programmi di ricostruzione del proprio territorio, mentre un amministratore su tre non è in grado di indicare quando potrà portarli a termine.
Lentezza olimpica
Anche i lavori di bonifica della centrale di Fukushima Daiichi stanno andando a rilento. Alla fine del 2020 la Tepco – la compagnia elettrica proprietaria degli impianti – ha deciso di posticipare al 2022 l’inizio delle operazioni di rimozione dei detriti di combustibile nucleare fusi e depositati sul fondo del reattore n. 2, previsto per i primi mesi di quest’anno. In Inghilterra, infatti, dove si stanno effettuando i collaudi del braccio robotico di 22 metri che dovrà essere impiegato nelle attività di recupero, la recrudescenza della pandemia ha causato notevoli ritardi. Altri rallentamenti potrebbero verificarsi in seguito alla recente scoperta effettuata dai tecnici dell’Autorità nazionale di regolamentazione del nucleare (Nra), secondo i quali sui grandi “tappi” di cemento armato che sigillano i vasi di contenimento dei reattori n. 2 e 3 si è accumulata un’elevata concentrazione di cesio radioattivo.
«Ci sono ancora migliaia di persone evacuate dalle loro terre – spiega a Nuova Ecologia Rikiya Adachi, segretario internazionale del Partito giapponese dei verdi (Midori no Tō Greens Japan) – mentre a Fukushima, giorno dopo giorno, gli impianti nucleari distrutti stanno ancora producendo centinaia di tonnellate di acqua contaminata radioattiva, che il governo sta pensando di rilasciare nel Pacifico. In una situazione del genere, come possiamo accettare le centrali nucleari ancora in funzione? Chi guida il Paese non ha imparato nulla dalla lezione del disastro di Fukushima. Se non fermiamo il nucleare ora, saranno le generazioni future a soffrirne di più».
Dopo la catastrofe di dieci anni fa, molti si aspettavano che il Giappone avrebbe abbandonato l’energia nucleare per virare a tutta velocità verso le fonti rinnovabili, con il traguardo futuro di una totale decarbonizzazione. Appena tornato al potere nel 2012, tuttavia, il Partito liberaldemocratico dell’ex primo ministro Shinzō Abe ha puntato immediatamente sull’atomo per raggiungere una stabilità a lungo termine nell’approvvigionamento energetico. Negli anni il suo governo ha incoraggiato la riattivazione dei reattori spenti dopo l’incidente di Fukushima Daiichi (oggi ce ne sono nove in funzione), anche attraverso una regolamentazione più stringente rispetto al passato in termini di requisiti di sicurezza. Con il quinto Piano strategico per l’energia approvato a luglio 2018, l’esecutivo ha fissato le quote da raggiungere entro il 2030 dalle diverse fonti nel mix di produzione di energia elettrica: mantenendo le fonti fossili ampiamente sopra il 50%, è prevista una crescita del nucleare fino al 20-22% (poco meno della quota pre-Fukushima), mentre le rinnovabili dovrebbero aumentare al 22-24% (oggi sono al 18%). Un obiettivo, quest’ultimo, giudicato da molte parti come modesto.
Rinnovabili snobbate
«Recentemente il governo del premier Yoshihide Suga ha annunciato di voler raggiungere zero emissioni di gas serra entro il 2050 – racconta Ken Tanaka, dirigente del Wwf Japan e segretario della Japan climate initiative – ma la chiave per realizzare questo obiettivo è accelerare ulteriormente l’espansione delle rinnovabili, fissando un traguardo intermedio più ambizioso di quello stabilito nel 2018. Ecco perché lo scorso gennaio – continua Ken Tanaka – 92 aziende che fanno parte del network Japan climate initiative hanno diffuso una dichiarazione congiunta per chiedere al governo di alzare il target delle energie rinnovabili per il 2030, dal 22-24% al 40-50%, all’interno del prossimo piano per l’energia, che dovrebbe essere formulato quest’anno».
È difficile capire se il Giappone riuscirà a raggiungere la “neutralità carbonica” entro il 2050, magari con un elevato apporto proveniente dalle fonti rinnovabili. Tuttavia è possibile azzardare una previsione abbastanza verosimile: in quella data, le operazioni di smantellamento della centrale di Fukushima Daiichi non saranno ancora terminate.
Principali incidenti nucleari
1957 Sellafield (Gran Bretagna). Nel complesso dove si produce plutonio per scopi militari, un incendio nel nocciolo di un reattore a gas-grafite genera una nube radioattiva che attraversa l’Europa.
1979 Three Mile Island (Harrisburgh, Usa). Il surriscaldamento di un reattore provoca la parziale fusione del nucleo rilasciando gas radioattivi pari a 15mila terabequerel (TBq).
1986 Chernobyl (Ucraina). Il surriscaldamento provoca la fusione del nucleo del reattore e l’esplosione del vapore radioattivo in una nube di un miliardo di miliardi di Bequerel.
2011 Fukushima (Giappone). Lo tsunami prodotto dal terremoto distrugge i generatori di emergenza che avrebbero dovuto fornire l’energia per le pompe di raffreddamento dei reattori.
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Fabio Massi